Si tende a parlare di libertà sempre in relazione a qualcosa di esterno da noi: siamo liberi da preoccupazioni, liberi da regole, liberi da un peso, liberi da una persona, ovvero tendiamo a definire libero chi ha la facoltà di agire a suo arbitrio, senza che la sua azione sia limitata da influenze esterne.
É questa, credo, una visione limitata e superficiale della libertà. La definizione più precisa e profonda di libertà, intesa in senso assoluto e non in relazione a qualcosa (quindi non “libertà da” ma semplicemente “libertà”) l’ha scritta un filosofo olandese del XVII secolo, Baruch Spinoza, all’inizio della sua Ethica:
Si dice libera quella cosa che esiste per sola necessità
della sua natura, e si determina da sé sola ad agire:
invece si dice necessaria o, meglio, coatta,
quella cosa che è condizionata ad esistere e ad agire
da qualcos’altro, secondo una precisa e determinata ragione.
Leggendo attentamente questa definizione, risulta evidente che l’uomo non può essere libero – come posso infatti definire libero un ente che è determinato ad agire da altre cause? Ho avviato il computer per scrivere quello che ora stai leggendo, non ho acceso il computer per accendere il computer. E ciò che mi determina ad agire, in questo caso ad avviare il computer, è determinato a sua volta da altre cause, determinate a loro volta da altre cause ancora, e così via.
C’è un termine comune nel dizionario Zen che ha da sempre caratterizzato la scuola Soto: Shikantaza. Questo è un termine attribuito al Maestro di Dogen, Tendo Nyojo, e significa letteralmente “soltanto, semplicemente” (shikan) “sedersi” (taza), è la pratica di meditazione seduta senza oggetto (zazen). Un aspetto fondamentale dello Shikantaza è la gratuità della pratica, il sedersi per sedersi, esserci per sola necessità della propria natura, essere determinati da sé soli ad agire (o a non-agire), qui e ora: in altre parole Shikantaza significa libertà.
Ma mi domando: ha senso interrogarsi e tormentarsi sulla propria libertà? Quando si è liberi, ci si domanda se si è liberi? Io credo di no, e per questo, forse, nello Shikantaza c’è un livello di libertà ancora più profondo di quello inteso da Spinoza, perché non è soltanto essere liberi secondo la definizione spinoziana, Shikantaza significa essere liberi anche dal tormento della domanda sulla libertà. E dal tormento di qualunque altra domanda.
Ma attenzione a dire che lo Shikantaza sia anche libertà dall’essere liberi, perché così torneremmo a una visione limitata della libertà, ovvero a una “libertà da”. E concludo citando Dogen, dal Genjokoan: quando i buddha sono davvero buddha, non hanno bisogno di sentirsi buddha; tuttavia sono buddha illuminati e continuano a realizzare buddha