Inchiostro misterioso specchio. Vivere lo Shodo. di Daniela ‘Myoei’ Di Perna.

Silenzio.

Per un momento il tempo sembra fermarsi.

Finché la punta del pennello non tocca il foglio ed il calligrafo inizia a muoversi nello spazio bianco del foglio di carta di riso, si trattiene il respiro.

E’ un salto nel vuoto, un tempo sospeso fra la vita e la morte.

Un tempo in cui si cela il segreto del mondo, il mistero dell’intuizione creativa.

Poi, la danza, o forse la battaglia, inizia.

Il calligrafo, perfettamente concentrato, esegue, senza sforzo, uno dopo l’altro, dei tratti di pennello. In un attimo tutto è compiuto. Probabilmente quello stesso carattere è stato eseguito centinaia di volte. Ma, ogni volta, ciò che resterà impresso sulla carta, sarà unico ed irripetibile, sarà l’espressione di ciò che è, in quel preciso momento, l’unione fra la mente, il corpo e lo spirito del calligrafo. Non saranno ammessi ritocchi o correzioni. Lo shodoka davanti al foglio bianco, come il samurai davanti all’avversario, non può esitare, non può tirarsi indietro e ogni volta la “battaglia” sarà per la vita o per la morte.

Per l’artista calligrafo la battaglia comincia molto prima dell’esecuzione della sua opera d’arte: si realizza, ogni volta, durante gli anni di paziente esercizio di copiatura dei testi di antichi maestri, cinesi e giapponesi. Ogni volta in cui egli tenta di cogliere lo spirito che si nasconde dietro la scrittura di questo o di quel maestro e di rivelarne l’essenza attraverso la sua esecuzione.

[…]

Per indicare l’arte della calligrafia in giapponese si utilizza il termine Shodō. Questa parola è composta da due caratteri: sho e dō che significano scrittura e via.

Si intende, quindi, la via della scrittura o meglio la scrittura come via.Si tratta, di una via interiore, di una strada, da percorrere fisicamente ma anche moralmente; è comprensibile come il percorso, ovvero il processo, diventi molto più importante dell’obiettivo raggiunto. In questo senso, la pratica della Via è profondamente trasformativa per chi la compie. […]

A nostra insaputa, l’esercizio continuo ci porta molto lontano, oltre il limite che noi stessi ci prefiggiamo di raggiungere. […] Come in uno specchio, alle volte non senza dolore, riusciamo a vedere il nostro io più profondo. Si tratta di uno specchio sapiente, nel quale, improvvisamente, possiamo intravedere il segreto dell’universo, un luogo in cui si uniscono tutti gli opposti.

Un’opera di shodo riflette noi stessi, come noi non siamo capaci di vederci, si potrebbe definire lo specchio del Ki. In effetti, la traccia d’inchiostro lasciata dal pennello sulla carta, rivela un ritmo che esprime chiaramente lo spirito dell’artista calligrafo, il suo Ki.

Rispecchia, re- interpretandola, una parte molto profonda che giace nella sua coscienza e che spesso è molto difficile rivelare. La pratica, alimentata attraverso un rigoroso esercizio di ripetizione, diventa un modo per forgiare lo spirito e per rafforzare il Ki; essa genera un graduale cambiamento, quasi inconsapevole, della coscienza e della vita in generale. […]

Praticare lo shodō significa, quindi, coltivare il Ki ed attraverso la pratica perfezionare qualità fisiche e morali come il coraggio, l’autostima, la disciplina, la costanza, il disprezzo della morte.[…]

Praticando costantemente ho capito che affinché ci sia armonia nella pratica della scrittura è necessario far lavorare insieme mente e corpo; poiché la relazione del corpo con la mente è estremamente profonda. La mente, lo spirito, controlla il pennello che potremmo dire essere un prolungamento del corpo. Il ritmo dello shodō, percepibile soprattutto nello stile corsivo e semi-corsivo, si riflette nel movimento dinamico del pennello e perché sia fluido è necessario che oltre alla sapienza della tecnica ci sia anche una perfetta conoscenza del proprio corpo, è necessario saper dosare forza e leggerezza. Questa conoscenza non è mai raggiunta una volta per tutte, non si è mai conosciuto se stessi fino in fondo, poiché noi siamo in continuo mutamento. È questo il nostro esercizio, continuare a praticare per continuare a ri-conoscere noi stessi.

Segno nero e spazio bianco nell’opera di shodō dialogano fra loro intrecciando un discorso fatto di sussurri e grida. Un dialogo allo specchio che ha luogo sulla carta di riso, dove a volte il non detto, ovvero lo spazio bianco, è tanto eloquente quanto il detto, lo spazio nero, quello scritto. Dove è possibile, ad esempio nelle entrate o nelle uscite del pennello, riconoscere il frastuono del vento che soffia nell’anima del calligrafo che esegue una poesia in gyosho o in sosho oppure la potente carica di energia che si nasconde nel raffinato bisbiglio del pennello nello stile kana.

L’artista calligrafo scrive sulla carta un segno che è solo una parte di un gesto che comincia dal nulla e va verso il nulla.

Circa dieci anni fa, una domenica d’autunno, partecipai ad una lezione di shodō tenuta dal Maestro Norio Nagayama. Non avevo la più vaga idea di cosa trattasse, avevo solo sentito che si insegnava a scrivere e questo mi era bastato.

Passai la lezione seduta a terra a lavorare sul tratto orizzontale e su quello verticale, mi sentii come una bambina al primo giorno di scuola. Fu molto faticoso, le caviglie indolenzite, una rigidità ai muscoli del collo che mi portai dietro per diversi giorni. Ma fui profondamente impressionata, qualcosa mi aveva toccato il cuore. Per anni non persi nemmeno una delle lezioni. […] Ogni volta ho l’impressione di lucidare uno specchio sporco e opaco e di acquisire limpidezza e spontaneità. […] Sento che nella pratica dello shodō si cela un segreto, un mistero e questo la rende ai miei occhi estremamente affascinante. Con gli anni la pratica dello shodō, così come quella dello zazen, sono diventate parte inscindibile della mia stessa vita.

Un’opera di shodō sul foglio di carta, specchio della nostra stessa forma. Ci dice di noi, una verità chiara, implacabile, spesso anche scomoda. È in grado di riflettere le esitazioni, la forza, il respiro, del corpo e del cuore, della mente e dello spirito. Quel riflesso d’inchiostro siamo noi, è la nostra gioia e la nostra paura. L’inchiostro, specchio nobile e misterioso, è capace di rivelare il nostro lato più oscuro, di penetrare il nostro io più profondo, ci concede la libertà di fare un passo in più, verso l’auto-consapevolezza ma anche verso l’ignoto.

C’è un passo di un testo tradizionale dello Zen Soto l’Hokyo Zan Mai, scritto dal Maestro Tozan (807-879), al quale sono particolarmente affezionata, le cui parole mi risuonano spesso nella mente quando osservo un’opera di shodō. Recita così:

“Al prezioso specchio la forma guarda il riflesso tu non sei quello ma quello è te.”

L’articolo completo è apparso sul numero di ottobre 2009 di Bonsai&Suiseki Magazine

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